Monday, October 30, 2006

Il vero male del paese

Il prof. Giavazzi è certamente persona capace ed intelligente ma, non me ne vorrà, è tutto fuorché simpatico. Quest’aura di solenne antipatia che lo pervade, certamente alimentata dai toni che egli spesso utilizza quando discetta delle sorti del nostro malandato paese dalle colonne del Corriere piuttosto che dalle pagine web di quell’eburneo thinkthank che è la redazione de La Voce, confesso che in più di un’occasione mi ha portato ad ignorarne le posizioni ma stavolta ci sono proprio cascato e il suo fondo del 29 ottobre me lo sono letto. Ed avevo anzi deciso di commentarlo sul blog, quando ho malauguratamente cliccato sul link di Carlo Gambescia, così accorgendomi che ero stato, ancora una volta, anticipato!

Questo post è dunque a commento di una duplice lettura.

Giavazzi solleva due questioni che mi sembrano emblematiche dell'attuale realtà del nostro paese. La meritocrazia (sulla quale troppo spesso si riversa la melassa della retorica nostrana e della quale per compiacenza, lavorando io nel doratomondodelluniversità™, avevo già deciso di astenermi dal parlare in questa sede) e il ruolo del reddito del genitore come variabile per predire il livello dei redditi dei figli. Sostiene appunto Giavazzi argomentando come una società più meritocratica possa per ciò stesso essere meno iniqua: "è legittimo obiettare alla discriminazione fondata sul merito (anche se io non conosco un sistema più equo), ma discriminare in base al merito è certamente meglio che discriminare in base al censo. In Italia il reddito dei genitori è ancor oggi più importante, nel determinare quello dei figli, di quanto non lo sia negli Usa".

Si tratta di un punto a mio avviso cruciale: nonostante l’università di massa e la società del largo consumo, la mobilità sociale in Italia è bassa. Citando un intervento di Reichlin e Rustichini su La Voce (per l'appunto!): “I dati recenti relativi all'Italia sono negativi sia per quanto riguarda la disuguaglianza statica (cioè relativa ai risultati economici raggiunti da una popolazione in un dato istante di tempo) che per quanto riguarda la mobilità sociale. A fine anni novanta, gli individui del noventesimo percentile di reddito guadagnavano, nel nostro paese, circa 4,5 volte ciò che guadagnavano gli individui del decimo decile. Questa percentuale è paragonabile a quella dei paesi anglosassoni (Inghilterra e Stati Uniti sono al 4,5 e al 5,6, rispettivamente) ed è molto al di sopra dei paesi del Nord Europa (che si attestano tra il 2,5 ed il 3). […] Inoltre, secondo i dati forniti da Checchi et al. la mobilità sociale in Italia sembra essere inferiore a quella degli USA.

Nell’articolo di Checchi, Ichino e Rustichini (Journal of Public Economics, 1999) si legge inoltre che alcune distorsioni legate al sistema di istruzione nazionale “have contributed together with the existence of non-competitive labour markets to cause the existence of lower intergenerational mobility in Italy, particularly between education levels”.

Mi sembrano queste valutazioni sulle quali valga la pena di riflettere. A dispetto di un modello che si spaccia per egualitario nel senso che dovrebbe concedere a tutti uguali possibilità di partenza, l’Italia, e non solo quella raccontata da Giavazzi, sembra configurarsi invece ogni giorno di più come un labirinto autoreferenziale nel quale sia impossibile orientarsi a meno che non ci trovi ben piantati all’interno di un solido reticolo di conoscenze e di relazioni informali.

E qui vengo a Gambescia e gli chiedo: dire questo significa per forza dire che l’America (che peraltro Giavazzi una volta tanto neanche cita!) è il paradiso? Cosa importa se quella è una società in cui la distribuzione del reddito è iniqua se, per sua stessa ammissione, lo è anche la nostra?

La questione che mi preme di portare agli occhi del lettore è che, anche se prendiamo in esame, quelli che sono diventati i nuovi termini di paragone della sinistra e cioè i Paesi del Nord (!!)- vorrei che fosse chiaro a tutti – è assurdo non riconoscere che anche lì, esattamente come negli Stati Uniti, in Germania, in Inghilterra, nella nuova Spagna e come probabilmente nella maggioranza dei paesi del mondo, i talenti non vengono mortificati ed il merito è premiato!

In Italia sembra invece di dire una bestemmia quando si spiega semplicemente che la produttività è una misura del merito di un impiegato, di un professore, di un manager e che, come è assolutamente ovvio che sia (ah…l’ovvietà dell’etica!), chi fa di più deve ricevere più di chi a parità di condizioni fa meno.

Va bene la critica agli States, va bene il rifiuto di un modello che neanche a me piace Carlo, ma con la stessa forza va ribadito che in Italia urge un cambiamento e che per troppo tempo la gerontocrazia ha avuto vita facile sulle spalle delle generazioni più giovani, consolidando un malcostume del quale sarà assai difficile liberarsi.


Saturday, October 14, 2006

...a proposito della storica posizione del centrosinistra in materia di televisione...



Intervento di Luciano Violante Capogruppo DS - Camera dei Deputati - Seduta n. 106 del 28/2/2002 - La seduta, sospesa alle 13,30, è ripresa alle 14,20 -(Dichiarazioni di voto finale - A.C. 1707)

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